Il movimento non è mai vuoto
- Joe Ferraro

- 21 set
- Tempo di lettura: 2 min
Nel dibattito globale sulla longevità, lo stile di vita viene celebrato come uno degli asset principali: linee guida, tabelle, numeri. Contare i passi. Cronometrare i minuti. Bruciare calorie. Sollevare pesi senza meta. Muoversi per “restare in forma”.
Eppure, in questa versione medicalizzata e standardizzata, il movimento perde ciò che più conta: il significato. Diventa un gesto vuoto, privo di radici, ridotto a funzione metabolica.
Nei racconti che ho raccolto in Sardegna, soprattutto tra i pastori e i contadini della Barbagia e dell’Ogliastra, emerge con chiarezza un’altra prospettiva: qui il movimento non è mai fine a sé stesso. Muoversi significa entrare in relazione con l’ambiente. Significa rispondere a una logica ecologica che connette l’uomo con gli animali, il vento, le sorgenti, i cicli delle stagioni.
Il passo del pastore non è un esercizio, ma un atto di conoscenza. Si cammina per seguire le capre, per trovare nuove erbe, per leggere il cielo. Ogni gesto è intriso di necessità, di ascolto, di senso. Non c’è meccanicità, ma interdipendenza.
Il movimento tradizionale, a differenza di quello urbano e standardizzato, è adattivo e armonico. Le fibre muscolari, l’equilibrio, persino il respiro si modellano sulle asperità del terreno, sulle altitudini, sulle variazioni climatiche. Il paesaggio non è sfondo, è co-agente: plasma, orienta, insegna.
Tim Ingold (Being alive, 2011) lo direbbe così: il corpo in movimento non esegue, ma genera. Fa, conosce, si orienta. Ogni passo è fare-mondo.
Camminando lungo i sentieri di montagna, seguendo il ritmo delle greggi o l’inclinazione del vento, il corpo si sintonizza con il paesaggio. Non lo osserva soltanto: lo vive, lo interiorizza. È quella che la fenomenologia e gli studi performativi chiamano kinaesthetic empathy (Sklar, 1994): un’empatia cinestetica che permette al corpo di sentire il movimento dell’altro – umano e non umano – attraverso una risonanza profonda.
Questo, più di qualsiasi contapassi, è il movimento che rende longevi. Non la ripetizione sterile di schemi vuoti, ma l’azione che nasce da una meta, da una necessità, da una relazione viva.È il movimento che connette, che radica, che genera longevità come esperienza incarnata.
Lo ha colto perfettamente il documentario Climbing the Elixir di Monica Dovarch, antropologa visuale, presentato alla IV edizione del Longevity Fest di Porto Cervo lo scorso agosto. In quelle immagini, la differenza abissale tra il movimento “vuoto” delle palestre e quello pieno, situato e relazionale dei pastori diventa evidente. È lì che si intravede il segreto: la longevità nasce così, dal senso che abita i gesti.
Saludi e trigu!
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