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Invecchiare bene, o nel modo "giusto"? Una critica ai modelli dominanti

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Nel corso del Novecento, il tentativo di spiegare che cosa significhi invecchiare ha dato origine a diverse teorie, ognuna legata al proprio tempo e alle sue preoccupazioni. Non si tratta solo di interpretazioni scientifiche: sono modi in cui una società guarda ai suoi anziani e decide qual è il posto che essi devono occupare.

Una delle prime concezioni diffuse in sociologia è la Teoria del disimpegno (Cumming e Henry, 1961). Secondo questa prospettiva, l’invecchiamento sarebbe un processo naturale che porta la persona a ritirarsi progressivamente dalla vita sociale, come se la vecchiaia fosse una preparazione graduale alla morte. Questa visione ha avuto un certo successo perché metteva in luce la dimensione relazionale dell’invecchiamento; allo stesso tempo, però, ha contribuito a legittimare forme di esclusione: se l’anziano “deve” ritirarsi, allora è quasi naturale che venga messo da parte, lasciato ai margini, considerato meno necessario.

Negli anni successivi, emerge una visione praticamente opposta: la Teoria dell’attività (Havighurst, Neugarten e Tobin, 1968). Qui l’invecchiamento “buono” è quello di chi rimane attivo, impegnato, partecipe. Continuare a fare, produrre, socializzare: questa diventerebbe la chiave per una vecchiaia sana e felice. Chi riesce a sostituire i ruoli perduti (come il lavoro) con nuove attività, chi mantiene una rete sociale, chi “non smette mai” – secondo questa teoria – invecchia meglio.

Ma questo modello porta con sé un rischio preciso: sposta sul corpo anziano la stessa pressione che domina le età centrali della vita. Anche nella vecchiaia bisogna funzionare, resistere, essere performanti. Il tempo dell’invecchiamento non è più spazio per altri ritmi, per la lentezza o la contemplazione: è un compito, una prova di efficienza.

È su questo terreno che, negli anni ’90, prende forma la Teoria dell’invecchiamento di successo (successful aging), resa celebre dal modello di Rowe e Kahn. Secondo questa prospettiva, si “invecchia bene” se non si hanno malattie invalidanti, se si resta cognitivamente lucidi e fisicamente efficienti, e se si partecipa attivamente alla vita sociale. Un’idea apparentemente positiva e moderna, che in realtà rispecchia gli ideali neoliberali della prestazione e dell’autonomia. La vecchiaia diventa accettabile solo se autosufficiente, dinamica, produttiva. Se non riesci a corrispondere a questo modello – per limiti economici, fisici o sociali – vieni percepito come un fallimento. L’invecchiamento non è più un’esperienza plurale, ma una performance valutabile.

In questo scenario, il mercato interviene con forza: integratori, palestre cognitive, centri benessere, programmi anti-age, cosmetica, chirurgia estetica, medicina personalizzata. La vecchiaia diventa una fascia di consumo: non solo un’età della vita, ma una industria.

Proprio in questo clima prende forma, sempre negli Stati Uniti, la Teoria dell’invecchiamento produttivo (Butler; poi Bass e Caro, 2001). Il punto di partenza è la paura, molto concreta, che una popolazione più longeva possa diventare “un peso” per il sistema economico e previdenziale. La soluzione individuata è semplice: anche in vecchiaia si deve contribuire alla società. Non solo con il lavoro retribuito, ma anche con il volontariato, l’assistenza familiare, la cura dei nipoti, la partecipazione civile. L’anziano diventa così una risorsa, ma a condizione che continui a “dare qualcosa”.

Tuttavia, il modello esclude ciò che non può essere valutato o quantificato: la ricerca interiore, il tempo per sé, la spiritualità, la contemplazione, la lentezza, il semplice “essere”. Si valorizza ciò che produce utilità; si ombra ciò che produce senso.

In questo quadro, l’invecchiamento appare sempre meno come una fase della vita e sempre più come un progetto da gestire e ottimizzare. Un compito individuale, caricato sulle spalle del singolo: sii autonomo, sii in forma, sii attivo, sii utile.

Ma la domanda che emerge, necessaria e urgente, è un’altra: "Quali forme di vecchiaia vengono escluse quando l’invecchiamento deve essere sempre produttivo, attivo, efficiente?
E quali mondi si aprono, invece, se riconosciamo la vecchiaia come tempo di trasformazione, ascolto, relazione più lenta con sé e con gli altri
?"

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