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Connettersi camminando

Nel dibattito globale sulla longevità, lo stile di vita è spesso celebrato come uno dei suoi pilastri principali: linee guida, tabelle, numeri. Contare i passi. Cronometrare i minuti. Bruciare calorie. Sollevare pesi senza uno scopo. Muoversi solo per “restare in forma”.
Eppure, in questa versione medicalizzata e standardizzata, il movimento perde ciò che conta di più: il significato. Diventa un gesto vuoto, privato delle sue radici, ridotto a funzione metabolica.
Nelle storie che ho raccolto in Sardegna – soprattutto tra i pastori e i contadini della Barbagia e dell’Ogliastra – emerge con chiarezza un’altra prospettiva: qui, il movimento non è mai stato un fine a sé stesso.
Muoversi significa entrare in relazione con l’ambiente. Significa rispondere a una logica ecologica che connette gli esseri umani agli animali, al vento, alle sorgenti, ai cicli delle stagioni.
Il passo del pastore non è un esercizio, ma un atto di conoscenza. Si cammina per seguire le capre, per trovare nuove erbe, per leggere il cielo. Ogni gesto è colmo di necessità, di ascolto, di senso. Non c’è meccanicità, ma interdipendenza.
Il movimento tradizionale, a differenza della sua controparte urbana e standardizzata, è adattivo e armonico. Le fibre muscolari, l’equilibrio, persino il ritmo del respiro si adattano all’asprezza del terreno, all’altitudine, alle variazioni climatiche.
Il paesaggio non è uno sfondo, ma un co-agente: plasma, orienta, insegna.
Tim Ingold (Being Alive, 2011) lo direbbe così: il corpo in movimento non si limita a eseguire, ma genera. Agisce, conosce, si orienta. Ogni passo è creazione di mondo.
Camminando lungo i sentieri di montagna, seguendo il ritmo delle greggi o l’inclinazione del vento, il corpo si accorda al paesaggio. Non si limita a osservarlo: lo vive, lo interiorizza. È ciò che la fenomenologia e i performance studies descrivono come empatia cinestetica (Sklar, 1994): la capacità del corpo di percepire e comprendere il movimento dell’altro – umano o non umano – attraverso un processo di risonanza.
Questo – molto più di qualsiasi contapassi – è il movimento che ci fa vivere a lungo. Non la sterile ripetizione di schemi vuoti, ma l’azione che nasce da uno scopo, da una necessità, da una relazione viva.
È il movimento che connette, che radica, che genera longevità come esperienza incarnata.
Questo è stato colto magnificamente nel documentario Climbing the Elixir di Monica Dovarch, antropologa visuale, presentato alla IV edizione del Longevity Fest di Porto Cervo lo scorso agosto. In quelle immagini emerge con chiarezza l’abissale differenza tra i movimenti “vuoti” delle palestre e i movimenti pieni, situati, relazionali dei pastori. E lì sta il segreto: la longevità nasce proprio così — dal significato che abita i nostri gesti.