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Longevità o desiderio di eternità?

Uomo dietro Broken Glass

Oggi più che mai, la longevità è diventata una parola di moda. Ovunque si parla di come vivere più a lungo, meglio, in modo più sano, più bello. Non è solo una questione medica: è diventata una vera e propria industria – il movimento del well-aging, il biohacking, gli integratori miracolosi – tutti promettono giovinezza eterna e performance prolungata. Ma cosa immaginiamo davvero quando sogniamo la longevità? Che forma assume il desiderio di “non invecchiare mai”? E soprattutto: chi trae profitto da questo sogno?

Il cinema – specchio delle nostre paure, dei nostri sogni e delle nostre ossessioni – ha anticipato, rappresentato e criticato l’ossessione collettiva per la giovinezza eterna. I film spesso mostrano ciò che le narrazioni dominanti nascondono: il costo, la solitudine, l’alienazione, la perdita d’identità che accompagnano la frenetica ricerca della vita eterna. In questo articolo esploriamo come il cinema decostruisca il mito contemporaneo della longevità, rivelandone complessità, ambiguità e potenziale critico.

Il mito di Titono: vivere per sempre, invecchiare per sempre

Il mito greco di Titono è una delle prime riflessioni sull’immortalità: un uomo a cui viene concessa la vita eterna, ma non la giovinezza eterna. L’amore della dea Eos e la sua dimenticanza nel chiedere a Zeus anche la giovinezza diventano una condanna crudele. Titono alla fine si trasforma in una cicala – simbolo di un’esistenza vuota e sussurrante. Il messaggio è chiaro: la longevità senza senso, senza corpo, senza relazione, è una tragedia, non un trionfo.

Dorian Gray: l’estetica come condanna morale

Nel romanzo di Wilde (e nei suoi adattamenti cinematografici), l’eterna giovinezza di Dorian non è un dono ma una trappola. Il suo corpo resta intatto mentre il ritratto – specchio della sua anima – si corrompe. Questa frattura tra apparenza e verità risuona profondamente nella nostra epoca di social media e corpi digitali, in cui il culto della bellezza giovanile cancella ogni traccia di tempo e vulnerabilità. L’immagine eterna, come per Dorian, è un’allucinazione tossica.

 

La morte ti fa bella: ironia e disgregazione del desiderio

Nella dark comedy La morte ti fa bella, due donne assumono un elisir per rimanere eternamente giovani. Ma la loro immortalità è solo superficiale: i corpi marciscono, si spezzano, si sgretolano. Il film ci dice che l’involucro non basta, che la bellezza senza vita è una parodia. Dietro la satira si cela una critica feroce alla chirurgia estetica estrema e alla feticizzazione del corpo perfetto.

The Substance: il doppio postumano e la perdita del sé

Il recente The Substance (2024) radicalizza il discorso. Una formula misteriosa crea una versione “perfetta” di sé – più giovane, più desiderabile. Ma questo doppio acquisisce autonomia, si ribella, sfugge al controllo. È un’iperbole narrativa che cattura perfettamente l’alienazione postumana: il soggetto diviso, moltiplicato, ridotto a pura performance. Il sogno di rigenerazione diventa un incubo di perdita d’identità.

Il curioso caso di Benjamin Button: vivere al contrario, morire nell’infanzia

Il film tratto dal racconto di Fitzgerald propone un’altra variante: un uomo che ringiovanisce invece di invecchiare. Ma vivere “al contrario” significa essere sempre fuori tempo rispetto agli altri, incapace di costruire relazioni durature. Quando la vita è privata del suo ritmo naturale, perde coerenza. L’anomalia temporale genera isolamento.

Una critica all’immaginario della longevità: la vita come merce

Tutti questi film, in modi diversi, parlano dello stesso paradosso: l’ossessione per il tempo infinito genera mostri. Vivere per sempre non è sinonimo di vivere bene. Anzi, più ci sforziamo di estendere la vita, più essa rischia di diventare artificiale, frammentata, disumana.

Oggi, il concetto di longevità è al centro di una vasta operazione economico-culturale. Le industrie dell’anti-aging, della cosmesi e della medicina rigenerativa promuovono una narrazione mitica della lunga vita: facile, felice, reversibile. Ma la vera longevità – come si osserva nelle comunità delle Blue Zones, ad esempio in Sardegna – è tutt’altro: lenta, relazionale, radicata nella terra, plasmata da routine quotidiane e legami comunitari.

Il cinema offre uno spazio critico per immaginare alternative. Ma oltre al racconto e alla satira, resta una domanda fondamentale: come si forma la nostra idea di longevità? È una costruzione culturale? Una proiezione collettiva plasmata da media, scienza e industria? E soprattutto, chi ha interesse a proporre una visione della longevità piuttosto che un’altra?

La longevità non è un concetto univoco. È un campo simbolico conteso, un immaginario in conflitto, un’aspirazione modellata da poteri, ideologie e narrazioni.

Sta a noi imparare a riconoscerlo.

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