La lentezza: l'elisir invisibile della longevità nelle Blue Zones
- Joe Ferraro
- 6 days ago
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Un impasto di semola, acqua e mani. Il culurgione nasce così: piano, senza fretta. Ogni piega racconta una storia: il grano maturato nei campi, la patata raccolta a mano, la menta strappata nell’orto. Ogni segno inciso nella pasta non è semplice ornamento, ma memoria. La chiusura a spiga – lenta, attenta, precisa – è una carezza che lega insieme nutrimento e bellezza, gesto e significato.
Il culurgione non si “fa”: si lascia nascere. Si lascia che la farina accolga l’acqua, che l’impasto si trasformi, che le mani imparino dalla materia. È un’opera che non tollera la fretta: la sua forma è già un invito a rallentare, a riconoscere che la lentezza è la condizione stessa della cura.
E poi ci sono le mani delle donne. Mani che conoscono il ritmo della terra. Non c’è fretta neppure nei loro gesti, solo una sapienza antica che scorre come linfa tra le dita.
La donna che prepara i culurgiones non lavora: custodisce. Il suo sguardo è raccolto, attento, quasi assorto. In ognuna di quelle pieghe - che chiude meticolosamente - c’è un atto di cura. In quell’attimo sospeso tra pollice e indice, il tempo sembra fermarsi; la pasta si chiude, il respiro si allunga. Non c’è urgenza: c’è solo il ritmo naturale del fare umano che si intreccia con la terra, con gli ingredienti, con la memoria delle generazioni
La lentezza, in queste mani, non è rinuncia ma possibilità. È il tempo che si dilata fino a diventare spazio di connessione. È un presente che non si consuma, ma che resta, denso di significato.
Il culurgione, allora, non è un semplice cibo: è un simbolo di lentezza incarnata, il sapore di una Sardegna che insegna a vivere il tempo come alleato e non come nemico.
E in quell’atto semplice – che lega e armonizza umano e non umano, cuore e materia, spirito e coscienza - si rivela una potenza invisibile: la lentezza come forza creativa, come condizione del della longevità.
La lentezza, sempre più invisibile ai nostri occhi, non è un concetto astratto: la riconosci nell’aria che rallenta il respiro, nei gesti che non corrono, nei dettagli che improvvisamente emergono alla vista e nel fare che ci unisce alla madre Terra.
Ad Orroli, come ad Atzara, Seulo – e specialmente nelle comunità agropastorali della Sardegna interna - questa lentezza non è folklore né cartolina: è il modo in cui la comunità abita il tempo. Si manifesta anche negli sguardi cordiali di chi ti incontra, nei saluti che diventano conversazione, nei silenzi che non pesano ma accolgono. La ritrovi anche nel passo che segue la luce del giorno invece che l’orologio, nelle parole che si dilatano nelle piazze fino a diventare racconto. È fatta di dettagli che altrimenti sfuggirebbero: il rumore dell’acqua che scorre, una porta lasciata aperta, una sedia davanti a casa che aspetta chi vorrà sedersi.
A chi ha compreso il valore euristico di questa componente squisitamente culturale delle Blue Zone sarde, mi permetto di dare un consiglio: non ti soffermare a guardarla; impara ad agirla, viverla, incorporarla. Nel mio viaggio etnografico e antropologico in Sardegna, io questa lentezza - l’elemento più invisibile e al tempo stesso più iconico della longevità – ho imparato ad agirla, a sentirla a tal punto di averne fatto un habitus: uno splendido abito, una prospettiva, una visione che mi porterò dentro, che ha già iniziato a modificare la mia vita, rendendola una lunga vita.
Sì, questo è il tempo che dobbiamo imparare a ritrovare: un tempo che sarà conquista e non perdita, investimento e non spreco, conoscenza approfondita e non superficialità. La lentezza è il tempo del vivere longevi. Io deciso di esserlo.
Se vuoi davvero esserlo, devi ripartire dalla Sardegna e dai sardi. Loro sanno. Non devi comprare nulla, devi, con generosità, donare il tuo ascolto.

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