Ti senti male, sei malato o hai una malattia?
- Joe Ferraro

- 5 giorni fa
- Tempo di lettura: 3 min
Tre forme diverse per chiedere a qualcuno il proprio stato di salute. Eppure, dietro queste semplici domande si nasconde qualcosa di più profondo: il nostro modo di intendere la malattia.
Una questione meramente biologica.
Un’esperienza soggettiva, legata al come ci sentiamo male e a come viviamo la malattia.
Una dimensione sociale, che modella il nostro modo di attraversarla.
Non ci interessa granché riflettere su questo — fino a quando, stando male, corriamo dritti dal medico. Lui, con precisione “scientifica”, verifica dove si trova il sintomo e con che frequenza si presenta.Segue poi la consultazione del suo catalogo di farmaci: ecco la medicina perfetta per voi.
Il ragionamento sembra impeccabile: la malattia ha un correlato fisico (un sintomo localizzato in un punto del corpo) ed esiste una medicina che lo risolve.Perfetto, appunto. Peccato che sia anche fallimentare.
Per capirlo, bastano cinque minuti. Cinque minuti per chiedersi — e magari chiedere al medico, se avete abbastanza sangue freddo — perché? Avete mai chiesto il perché della vostra malattia “supposta”? Avete mai provato a indagarne la causa reale?
Il medico occidentale — quello biomedico, per intenderci — vi risponderà che state male perché qualcosa non funziona. Il corpo, per loro, è una macchina. Si guasta e si aggiusta.
Avete problemi digestivi? Prendete Gaviscon.Avete ansia? Xanax.Avete ipertensione? Olmesartan. A tutte le domande, la stessa risposta. E noi sembriamo gradirla, pure con entusiasmo.
D’altronde, anche per noi la malattia è questo: una fastidiosa seccatura. Ci costringe a casa, ci fa saltare il tennis, la cena di lavoro, le uscite, le vacanze, lo shopping… È un incidente di percorso.Arriva, e deve andarsene in fretta. Non importa come.
La faccenda si complica quando quella malattia, una volta solo fastidiosa, comincia a bussare con regolarità, e il medico diventa improvvisamente più incerto. Il perché è semplice: quando la malattia impara a bypassare tutte le medicine “silenzianti”, il medico resta senza risposte. E allora arriva il colpo di grazia: “È una malattia psicosomatica.”Tradotto: rassegnatevi, non c’è nulla da fare. Nessuna medicina potrà aiutarvi.
Le domande cambiano forma e diventano più serie quando il referto biomedico ci porta davanti al “grande male” — tumore, cancro, chiamatelo come volete. A questo punto, smettiamo di chiederci perché, per domandarci invece come o cosa fare per sbarazzarcene. E il medico di base, naufragato nella propria ignoranza, passa agilmente la palla allo specialista. Lo specialista, a un altro ancora. Nella catena di montaggio della scienza biomedica — che vive di oggettività e di certezze — la domanda diventa: chi sarà il più bravo a eliminare il male? Di solito, credetemi, è quello che costa di più.
Eppure i fatti restano: il male ha preso dimora nel vostro corpo, e ora serve il killer ideale per farlo secco. Così, la domanda iniziale “Perché sto male?” diventa “Perché proprio a me?”.Ma tranquilli, anche il più specializzato degli specialisti vi rassicurerà con dati e percentuali: statisticamente, il male colpisce una certa percentuale della popolazione della vostra età e del vostro genere. E così, senza accorgercene, entriamo nel mondo della statistica. E dell’ineluttabilità. Fine della questione.
Forse.
Ora però, immaginate una sliding door. Immaginate cosa sarebbe cambiato se, all’inizio di tutta questa fallimentare sequenza di domande e risposte, avessimo posto la domanda giusta.E se, dall’altra parte, ci fosse stato qualcuno capace di rispondere.
Cominciate a pensarci. Io, intanto, preparo la giusta domanda. Vi aspetto alla prossima.





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