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Su Bundhu. Il vento

Su Bundhu, questo è il nome del vento: una presenza che attraversa il tempo, che anima le stagioni, che accompagna i passi dei pastori e le attese delle donne. Ma chiamarlo “vento” è riduttivo. Su Bundhu è molto di più: è il più grande non-umano dell’isola, lo spirito che soffia tra le rughe della terra, che entra nei corpi, nei riti, nei racconti, negli sguardi. È il messaggero invisibile della Dea Madre, il suo complice aereo, la sua anima mobile. È ciò che feconda, che agita, che trasforma. È il respiro profondo della Sardegna.
Nel corso del mio lavoro etnografico nelle Blue Zones dell’interno sardo — tra Barbagia e Ogliastra — ho sentito più volte la sua presenza, mai banale, mai prevedibile. Su Bundhu arriva senza preavviso, ma è sempre atteso. Si annuncia nelle fronde, si insinua tra le pietre, scuote le tende, fa scricchiolare le travi. È ovunque, anche quando tace. Ma è nel Carnevale che prende corpo, che si rende visibile, simbolico, archetipico.
Antonello Masini di Mamoiada racconta di una delle sue forme più potenti:
“È una maschera antropo–bovina che copre l’intero viso di chi la indossa. Ha una forma ovoidale propria del viso umano ed è caratterizzata da tratti somatici fortemente accentuati, come il naso particolarmente prominente di forma aquilina, i baffi voluminosi che disegnano il contorno superiore della bocca allungandosi lateralmente con forma acuminata, una protuberanza sotto la bocca a definire il doppio mento; infine, le corna bovine issate sulla fronte segnano allo stesso tempo il confine e la simbiosi tra umano e animale”.
Questa non è solo una maschera. È una soglia. Un varco tra visibile e invisibile, tra corpo e spirito, tra mondo umano e potenze animali. È il volto rituale del vento, la sua epifania. È il simbolo di un’alleanza antica, che ancora oggi abita i gesti e le credenze delle comunità sarde.
In sardo, la parola bundhu non si limita a designare il vento atmosferico: evoca piuttosto un principio animico, una forza che anima e attraversa ogni forma di vita. Non è un oggetto meteorologico, ma un soggetto con volontà, con umore, con voce. È affine al greco ánemos (soffio), da cui deriva il concetto stesso di anima. Bundhu è ciò che muove, che anima, che dà vita.
Come scriveva Ernst Cassirer, “Ogni conoscenza teoretica prende il suo avvio da un mondo già formato mediante il linguaggio.” (1976, p. 54).
Ed è nel linguaggio che Su Bundhu mostra tutta la sua potenza culturale. Esistono espressioni popolari sarde che lo richiamano direttamente:
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paret ki v’ata bundhos a giru — “sembra che ci siano i bundhos in giro”, per dire che c’è nell’aria una forza invisibile in movimento;
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hapat sa bundha de su mare — “che tu abbia l’abbondanza del mare”, un augurio potente, una benedizione fatta soffio;
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su ruvu at bundhire kene ispina — “il rovo germoglierà senza spine”, dove bundhire non è solo “crescere”, ma generare fuori dalla norma, per grazia del vento.
E poi ci sono le parole che svelano l’origine animica del linguaggio stesso:
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vagabundhu — anima errante
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moribundhu — anima che muore
In entrambi i casi, ciò che viene descritto non è il corpo, ma lo stato dell’anima. Bundhu, in questo senso, è una chiave di lettura dell’esistenza: è la scintilla che inizia e quella che accompagna alla fine.
Tutto questo si inserisce in un orizzonte più vasto: quello di una cosmologia animista che riconosce alla natura una soggettività, un’intelligenza diffusa, una vitalità immanente. Il concetto platonico di anima mundi — l’anima del mondo — si manifesta qui nella sua forma più concreta e terrena: Su Bundhu è l’anima della Sardegna, il suo soffio vivente.
David Abram (The spell of the sensuous), nel suo dialogo tra fenomenologia e animismo, lo direbbe con parole semplici: la natura parla. E in Sardegna, il vento è la sua lingua madre.
Eppure, Su Bundhu non è mai solo. È sempre in relazione. È il vento che feconda la terra della Dea Madre, che la percorre, la solleva, la protegge. È la sua ombra leggera, il suo amante invisibile, il suo messaggero. Nella cosmologia precristiana ancora viva nelle Blue Zones, la Dea Madre è la signora dei cicli vitali, la custode del ritmo cosmico. Il vento è ciò che la accompagna. È la forza che entra nei pozzi sacri, che si fa eco nei nuraghi, che scivola tra le dita di chi lavora la terra.
È in questa danza tra terra e vento che si genera la vita. Non in un atto di dominio, ma in un incontro, in un’intimità cosmica. Qui l’umano non è mai al centro, ma sempre dentro il mondo, intrecciato a esso, come filo nella trama.
Pensare Su Bundhu come semplice vento significa perdere la sua profondità. Egli è presenza cosmologica, figura culturale, anima vivente. È il simbolo di una Sardegna che non ha mai interrotto il dialogo con il mondo invisibile, che ancora oggi sa respirare con il ritmo della natura.
Nelle comunità longeve delle Blue Zones, Su Bundhu continua a soffiare. Non lo si addomestica, non lo si possiede. Ma lo si riconosce. E forse è proprio questa capacità — di vivere in relazione con l’invisibile, di ascoltare il soffio, di fidarsi del vento — uno dei segreti più profondi della longevità sarda.
Un mondo che sa respirare con il vento è un mondo che ha ancora un’anima.