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Il pane dei pastori

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Le mani non sono semplici strumenti: sono archivi viventi di memoria. Ogni gesto nella panificazione — impastare, stendere, cuocere — è una conoscenza incarnata che non si tramanda attraverso manuali o regole scritte, ma si conserva nei corpi e si apprende nello spazio condiviso della comunità. La cucina diventa una scuola silenziosa, dove l’apprendimento scorre attraverso l’osservazione, l’imitazione, la paziente ripetizione e la cura.

Nel documentario di Fiorenzo Serra Il pane dei pastori (1962), questa verità emerge con forza: il pane carasau non è solo cibo, è una forma sociale. Il suo valore non risiede soltanto nella lunga conservazione — essenziale per i pastori durante la transumanza — ma anche nel modo in cui la comunità si organizza per produrlo. La panificazione è un lavoro collettivo, che coinvolge più donne della stessa famiglia o del vicinato, ciascuna con un ruolo preciso: una impasta, un’altra stende i fogli sottili, un’altra segue il forno, un’altra ancora governa il fuoco. Una catena di gesti intrecciati come una danza rituale.

Questa cooperazione genera coesione sociale. Il pane non è mai un atto solitario ma un evento che rafforza i legami: si parla, si canta, si trasmettono storie mentre la farina si trasforma in nutrimento. Come afferma Serra, il ritmo del lavoro ha la solennità di una liturgia, con formule e dialoghi che scandiscono la fatica. Non è un’impressione esterna: è il riconoscimento che, nel fare il pane insieme, la comunità si rinnova.

Il pane carasau e il pane pistoccu incarnano due diversi modi di organizzare la vita. Il carasau, sottile e croccante, era pensato per il viaggio e la mobilità pastorale; il pistoccu, più spesso e sostanzioso, era destinato al consumo domestico e alla stabilità agricola. Eppure in entrambi i casi la produzione è comunitaria — ed è questa la loro forza: il pane non è solo nutrimento individuale, ma legame collettivo.

Pier Paolo Pasolini (1977) ha colto questa dimensione profonda della vita contadina: un sapere che nasce dai gesti e dagli oggetti più che dalle parole scritte. È un sapere che custodisce non solo tecniche, ma anche valori: sobrietà, cooperazione, solidarietà, rispetto per la materia e per i ritmi della natura.

Il pane dei pastori è dunque un artefatto sociale. Nell’atto di prepararlo, dimensioni biologiche, culturali e relazionali si intrecciano: il cibo diventa veicolo di coerenza tra corpo e comunità, tra ambiente e cultura. Qui si radica una delle radici più profonde della longevità: non nei singoli nutrienti, ma nella rete di relazioni e significati che si rigenera ogni volta che la comunità si raccoglie intorno al forno.

Così il pane, cibo umile, diventa simbolo di resilienza e continuità, specchio di un mondo in cui vivere a lungo significa vivere insieme — intrecciando biologia, memoria e relazione.

Riferimenti
Serra, F. (1962). Il pane dei pastori [documentario]. Cineteca Sarda, Cagliari.
Pasolini, P. P. (1977). Scritti corsari. Milano: Garzanti.
Pasolini, P. P. (1977). Lettere luterane. Torino: Einaudi.

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